lunes, 27 de julio de 2015

Distacco automatico

Venerdì scorso John Carlin ha pubblicato delle note di viaggio su New York per raccontare ai suoi lettori di El País che ha tornato alla Spagna «riaffermato». Un esercizio intellettivo che, dato l'ululato del vento alla mesa, solo può essere un'esibizione gratuita ed estiva d'ignoranza —proprio della casa di Tentaciones— o, nella sua versione solenne, un'eruzione di pregiudizi antichi e umiliazioni private camuffata sotto forme pseudogiornalistiche. È la sindrome del giornalismo cittadino, secondo il quale, non è che il personale passi ora i fini settimana paragonando i valori del Nasdaq, ma anzi che alcuni giornaliste —alla fine! alla fine!—si sono gettati a terra come spontanei nella corrida dell'anno.

Carlin vuol uccidere New York, ma non può (capisca l'iperbole) perché questa città da cui scrivo è, come già detto da Camba, automatica. New York non ha cuore per i distacchi di quelli che passeggiano nove giorni Quinta Strada su e SoHo giù, solo ha elettricità per illuminare la via di chi vogliano investire i loro risparmi nei migliori piatti, concerti, esposizioni ed altre sciocchezze di questa civiltà nordamericana così per bene, barbara e antagonista alla nostra del «viva la morte».

Il mito di Carlin è quello dell'umile patio spagnolo pieno di mosche all'aria fresca in cui la vita è quella cosa viscosa, calda e invisibile che uno, a quanto pare, è obbligato a godere senza camicia né freno. Sempre ho sospettato dei deboli sentimentali che ripartiscono sorrisi nel circondario per poi venire ad accennare il denaro sporco nella città dove si fabbrica. Ah, il denaro, che piacere, che grande smascheratore, quella cosa metafisica di cui parlava Dalí che lascia Carlin alle porte di Seseña proclamando: «Nunca seremos tan ricos como ellos, pero somos más felices —y más dignos».

Non c'è niente di personale in tutto questo, trattandosi di un Carlin e un Mediavilla Costa non può essercene, ma mi ammira che il buon uomo utilizzi la questione della mancia «en el mejor restaurante de la ciudad» —enunciazione impossibile e provinciale— per calibrare il grado di civiltà della capitale del mondo. Non c'è niente di personale, ripeto, io stesso odio questa città in molte diverse manieri, ma cerco di sintetizzarlo in proposizioni logiche e contrastabili prima di appendere le mie vergogne al sole.

In fondo, ora che la notte raffredda, è uguale che a Carlin abbiano truffato trenta volte nel cinque stelle Hotel Pierre, che nella sua diatriba tutto sia «molto semplice» o che gli paia che la società-Spanish-way-of-life è «più civilizzata». Persino la famiglia catalana caricata con buste Levi's e nonno in un diner infettato di Times Square, vicino al mostruoso negozio di M&M's, sa che niente di quello che dice Carlin nella sua piroetta transatlantica ha un micron di verità. Lo sa —per scendere all'arena carliniana—quando servono a loro un bicchiere di acqua prima di chiedere l'ordine, quando pagano una tariffa fissa di taxi dal JFK fino al centro e quando si fermano a domandare qualcosa in strada a uno di quelli esseri autoctoni che «desfilan por las calles frenéticos, la mirada fija, con un único y terrible objetivo: sobrevivir». Capisco che per l'autore di un articolo come che mi occupa, la visione di gente da tutto il planeta che va o viene da una cosa chiamata «lavoro» possa sembrare una lotta per la vita o la morte stile savana africana. «El animal hispano está en una fase de evolución superior al animal neoyorquino. Hemos salido de la jungla y aprendido el valor de saber vivir». Lo capisco e già mi arrendo.